Editoriale di Aldo A.
Mola, pubblicato su "Il Giornale del Piemonte e
della Liguria" di domenica 11 maggio 2025
C'era una volta un Re...
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre
1869-Alessandria d'Egitto, 28 dicembre 1947) era
e rimane “il Re discusso”. Ascese al trono a 31
anni perché suo padre, Umberto I, venne
assassinato il 29 luglio 1900 a Monza da un
anarchico, Gaetano Bresci, che non agì certo da
solo. Principe ereditario, “Re Vittorio” era in
navigazione nell'Egeo con la consorte, Elena di
Montenegro, sposata il 24 ottobre 1896. Non
avevano ancora figli e in certi ambienti si
insinuava non ne potessero avere.
“Intercettato”, apprese dai segnali
convenzionali di essere Re. Approdato a Reggio
Calabria percorse l'Italia in treno sino alla
volta della Villa Reale di Monza. L'“Italia”
tenne il fiato sospeso. Come avrebbe governato
il nuovo sovrano? Nei due giorni seguenti il
regicidio la somma dei poteri venne retta
dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del
Consiglio dei ministri e del Senato, un antico
patriota nativo di Bistagno, presso Acqui Terme,
giunto a capo del governo con programma di ampie
riforme.
Dopo i funerali e la sepoltura del
padre al Pantheon, per primo e unico con il titolo
di “Re d'Italia”, l'11 agosto 1900, a capo
scoperto, Vittorio Emanuele III giurò fedeltà allo
Statuto del regno, identico a quello emanato il 4
marzo 1848 da suo nonno Carlo Alberto di
Savoia-Carignano, all'epoca re di Sardegna. Era un
re giovane di un'Italia che a Roma era arrivata
quando egli aveva appena un anno. Il Re, il suo
governo e la dirigenza politica erano scomunicati
dalla Chiesa cattolica. Papa Leone XIII aveva
ribadito la loro condanna perché avevano debellato
lo Stato pontificio, incamerato beni ecclesiastici
e varato leggi civili dalla Chiesa considerate
eversive. Da otto anni il Partito dei lavoratori
italiani, poi partito socialista, si era separato
dagli anarchici, ma rimaneva diviso tra programma
massimo (la “rivoluzione”) e quello minimo:
elezione alla Camera e nei consigli provinciali e
comunali. Molti “radicali” erano da tempo mutati
in “democratici”, gomito a gomito con i liberali
“progressisti”: un gruppo fluido a contatto con i
repubblicani “legalitari”, che, eletti deputati,
prestavano giuramento di fedeltà allo Statuto ma
protestavano perché lo consideravano estorto. Nel
Paese, in sintesi, la Monarchia non aveva
alternative, ma rimaneva “in sospeso”. In meno di
dieci anni si erano susseguiti quattro presidenti
del Consiglio: Giovanni Giolitti, affossato dallo
scandalo della Banca Romana; Francesco Crispi,
travolto dalla sconfitta ad “Adua”, in Etiopia,
nel marzo 1896; il marchese Antonio Starrabba di
Rudinì, crollato dopo l'insurrezione milanese
esplosa in coincidenza con i festeggiamenti del
cinquantenario dello Statuto (maggio-giugno 1898)
e da lui sanguinosamente repressa; il generale
Luigi Pelloux, che vinse le elezioni nel giugno
1900 ma era ritenuto inadatto a rimanere capo del
governo proprio perché, in divisa qual era, dava
all'estero l'impressione di guidare uno Stato in
affanno.
Il giudizio della comunità
internazionale contava. L'Italia infatti non aveva
solo problemi enormi all'interno, ma anche
all’estero, per la sua collocazione nel quadro
delle grandi potenze, che in un ventennio si erano
spartite l'Africa e gran parte dell'Asia.
Vincolata dall'alleanza difensiva stipulata nel
1882 con gli imperi di Germania e di
Austria-Ungheria (suo nemico storico, per quel che
gli aveva sottratto e per quanto ancora
rivendicava), proiettata nel Mediterraneo dalla
geografia (che detta la storia), da vent'anni in
guerra doganale con la Francia, l'Italia doveva
continuare l'espansione coloniale iniziata con
l'Eritrea e la Somalia, sovradimensionata rispetto
alle sue risorse ma irrinunciabile. Mirava alla
Libia. Nel 1900 partecipò alla spedizione
internazionale contro i “boxer” in Cina e ne cavò
la “concessione” a Tien-Tsin: poco più che
simbolica, ma meglio che niente mentre dilagava in
Europa l'incubo del “pericolo giallo”, costituito
non dalla Cina, bensì dal Giappone, che cinque
anni dopo affondò la flotta dell'impero russo
giunta spossata nel suo mare dopo aver
circumnavigato l'Africa.
Il suo programma
Quale “politica” avrebbe fatto dunque
il giovane Re? Lo enunciò nel suo primo discorso
agli italiani: «Impavido e sicuro ascendo al trono
colla coscienza dei miei diritti e doveri di Re.
L'Italia abbia fede in me come io ho fede nei
destini della patria e forza umana non varrà a
distruggere ciò che i nostri padri hanno con tanta
abnegazione edificato. È necessario vigilare e
spiegare tutte le forze vive, per conservare
intatte le grandi conquiste della Unità e della
Libertà.»
Come suo nonno, Vittorio Emanuele III
prese sulle spalle il “brut fardel” della Corona,
dell'“idea di Italia”, e se ne fece sommo
sacerdote. Va evidenziato che alla sua ascesa al
trono il Paese non era ancora infettato dai
“nazionalisti”, gonfi di retorica, privi di
cultura economica, ignari di statistiche, a secco
di visioni strategiche e di cognizioni militari:
“vanitas vanitatum”. Vi erano invece, come egli
auspicava, “patrioti”, consapevoli che occorreva
ri-posizionare l'Italia con l'amicizia
dell'Inghilterra e la ritrovata intesa cordiale
con la Francia. In politica interna garantì
massima libertà agli “scioperi economici”, ma “chi
rompe paga”.
“Re Vittorio” mostrò subito la sua
sovranità sulla politica estera, che trascina con
sé quella militare, con il conferimento
dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata a
Pietro, granduca di Russia, il 9 agosto 1900, ad
Alfonso XIII, re di Spagna, il 20 settembre, al
principe ereditario del Siam il 1° aprile 1901 e
il 10 aprile all'anticlericale Emile Loubet,
presidente della Repubblica francese, che così
divenne suo “cugino”. Fu la grande svolta. Nel
frattempo incaricò del governo il democratico
bresciano Giuseppe Zanardelli, notoriamente
massone, gran collare dal 2 giugno 1901, festa
dello Statuto, come Emilio Visconti Venosta,
cinquant'anni prima mazziniano, poi ottimo
ministro degli Esteri, apprezzato dal corpo
diplomatico internazionale come si vide quando
presiedette la conferenza di Algeciras per la
soluzione delle tensioni sul Marocco e, più in
generale, sull’espansione coloniale delle maggiori
potenze.
… e la vita di Casa Savoia nel diario di
Adelina Pasquet...
Il Re, dunque, fece il Re.
Istituzionale e costituzionale. Chiamato a
consulto, lo storico Pasquale Villari (a sua volta
massone) gli consigliò di decidere di testa sua e
di cacciare a pedate i “cortigiani”. Applicò il
consiglio. Ma il Re aveva anche la sua “vita di
casa”. Se ne scrisse poco e ancora poco se ne sa.
Fa luce ora il libro “Dario e ricordi di
un'istitutrice di Casa Savoia” di Adelina Pasquet,
pubblicato a cura di Stella Peyronel e di
Alessandro e Simone Milan (ed. Editris).
Il volume, forte di accurato apparato
critico e con ampio corredo di documenti e
illustrazioni in massima parte inedite, si vale
della Prefazione della Principessa Maria Gabriella
di Savoia, che produciamo integralmente perché
illustra perfettamente il volume. Ecco le sue
parole:
La prefazione della Principessa Maria Gabriella
di Savoia
«Ho letto il volume con
partecipazione crescente e con il velo di
melanconia che si prova leggendo una fiaba.
Colpisce la protagonista, Adelina Pasquet. Nata a
Torre Pellice il 20 settembre 1888,
prevalentemente francofona nella vita domestica,
già allieva del ginnasio-liceo valdese della
città, dopo la licenza liceale (1908) si recò in
Germania per apprendere il tedesco, all'epoca
dominante negli studi scientifici e umanistici, e
ventiduenne conseguì il diploma all'insegnamento
del francese all'Università di Torino. Segnalata
quale possibile “professora” (sic!) di francese
all'Istituto Nazionale per le figlie dei Militari
a Villa della Regina, a Torino, nel 1911 vi prese
servizio. L'antica capitale viveva il clima
festoso del Cinquantenario del Regno d'Italia.
Adelina vi rimase un anno. Nell'ottobre 1912 fu
chiamata al Quirinale, forse per decisione
personale di mia Nonna, la regina Elena, per
insegnare francese, dettato e letteratura italiana
ai principini Jolanda, Mafalda, Umberto e
Giovanna. Iniziò a impartire le lezioni il 30
novembre.
«La parte centrale del volume, dopo
cenni biografici arricchiti da fitto apparato
critico, meritevole di encomio solenne, è il vero
e proprio “Diario”, intrapreso da Adelina Pasquet
per dialogare con se stessa ed evocare Beniamino
Peyronel, conosciuto al liceo anni prima e via via
sognato quale sposo, ma per motivi accademici
costretto a vagare da un capo all'altro d'Italia
sino ad affermarsi quale micologo di fama
internazionale.
«Anima candida, incline ad arrossire
come una ciliegia per qualunque parola fuori
registro, dedita alla missione dell'insegnamento
ma al tempo stesso ansiosa di vivere spazi di
libertà personale al di fuori dell'orario di dieci
e più ore quotidiane, comprendenti le lezioni e
soprattutto la responsabilità generale degli
allievi, Adelina narra nei dettagli la vita
quotidiana al Quirinale, a Villa Savoia e nelle
residenze sabaude di vacanza: San Porziano, San
Rossore (con puntate al Gombo e a Montecristo),
Sant'Anna di Valdieri, con visite a Entracque,
Racconigi (ove i miei Nonni per un decennio
durante l'estate si fermavano un intero mese) e a
Napoli. Nel “Vecchio Piemonte”, come Pasquet
puntualmente annota, il sovrano amava conversare
in dialetto con i popolani.
«Sorvegliante sui prìncipi, pronta
alla severità come già all'Istituto torinese, e
sorvegliatissima su di sé, Adelina vede, ode e,
appartata anche quando presente, annota i
molteplici aspetti di un mondo nel quale da
ragazza non aveva immaginato di potersi/doversi
immergere, tanto più perché fedele alla sua
“diversità” di valdese in un Paese formalmente
cattolico ma nei fatti fra superstizioso e
“politeista” qual era l'Italia tra Otto e
Novecento.
«Nel Diario Adelina Pasquet ricorda
con precisione dialoghi, motti e le frasi che a
volte le vennero rivolte dai sovrani. È il caso di
mio Nonno Vittorio Emanuele III, che, per esempio,
ripetutamente le domandò se fosse piemontese,
quale diploma avesse e se nella sua valle
originaria ancora si parlasse francese. Di ogni
personaggio della corte, come degli ospiti e dei
loro figli ammessi alla compagnia dei principi,
l'Istitutrice tratteggia bozzetti divertiti e
divertenti.
«Chiamata talvolta a condividerne la
mensa e le “merende campestri” nei luoghi di
vacanza, dei miei Nonni scrive particolari che non
si leggono altrove e fanno del suo Diario un
documento di interesse generale. Dei sovrani
constata anzitutto la sobrietà e semplicità e ne
narra anche le corse spericolate in automobile,
con lei a bordo, terrorizzata, per strade ancor
oggi impegnative, come la salita dalla costa
toscana al Monte Nero, con mia Nonna spesso al
volante. E poi descrive le ore di libertà genuina
vissute dal Re al di fuori degli impegni
istituzionali. Mio Nonno in privato non solo amava
fischiettare allegramente ma era pronto a
scatenarsi in balli (persino una quadriglia, che
danzò prendendola sottobraccio) e a gettare la
palla nel salone del Quirinale, a volte proprio
per colpire benevolmente l'attonita Istitutrice.
«Mio Nonno non era affatto
misantropo, chiuso in se stesso, diffidente e
cinico. Consapevole dell'enorme responsabilità di
sovrano di uno Stato giovane, arretrato e ancora
lontano da vera unità di cultura e costumi,
perduto il Padre come sappiamo e bersaglio egli
stesso di attentati alla sua vita, il Re sentiva
la responsabilità di ogni sua parola pubblica.
Perciò era riservato nella vita istituzionale e
politica ma diretto e spontaneo in quella degli
affetti, a cominciare dalla Famiglia. Quanto
Adelina Pasquet attesta della sua attenzione per i
figli ha suscitato in me il ricordo di quando egli
mi teneva sulle ginocchia e gonfiava le gote che
io stringevo tra le mani perché sbuffasse,
fissandomi sorridendo.
«Il “pensiero dominante” che ricorre
nel Diario è l'aspirazione di Adelina al
matrimonio con Beniamino Peyronel. Esso comportò
il suo congedo dai sovrani e dai principi, ma non
significò reciproco oblio. Lo documenta nella
terza parte del volume l'ampia raccolta di lettere
e cartoline inviatele nel tempo dalle principesse
e da Umberto, improntate da autentico affetto,
attestato all'Istitutrice sin da quando le
chiesero di essere da lei chiamati con i nomi “di
casa”.
«La lettura del volume suscita due
altre considerazioni. In primo luogo emerge che la
popolazione di culto valdese come le altre
minoranze religiose presenti in Italia, a
cominciare dall'ebraica, non avevano bisogno di
dichiararsi monarchiche. Lo erano senza
esitazioni, memori delle regie patenti e dei
decreti che, per decisione di Carlo Alberto, le
avevano affrancate ed equiparate a ogni altro
cittadino del regno: uguali dinnanzi alle leggi.
Inoltre sorge spontanea la domanda sulla “mano”
che potrebbe aver propiziato il cammino
dell'Istitutrice da Torre Pellice a Roma. Forse
concorse una speciale “condizione” di suo padre.
Il libro non ne accenna ma ce ne viene data
assicurazione da chi, come Aldo Mola, bene conosce
l'intreccio tra garibaldini, liberali, radicali e
persino repubblicani convinti che i Re d'Italia
fossero gli unici garanti di libertà e progresso
civile. Il padre di Adelina, Federico Pasquet,
nativo di Prarostino, già volontario al seguito di
Giuseppe Garibaldi, proprietario di una segheria e
quindi classificato “industriale”, il 25 ottobre
1901 venne iniziato massone nella loggia di Torre
Pellice installata nel 1900 con ampia
partecipazione di massoni da Torino e di
“fratelli” francesi, inglesi e americani
villeggianti nelle valli valdesi e denominata
“Excelsior”, come il “balletto” di Romualdo
Marenco. Fu una decisione matura. Federico Pasquet
aveva 66 anni. Adelina era appena adolescente. Il
nome distintivo di quella loggia le risultò di
buon augurio? Certo era l'Italia che vedeva il
mazziniano fervente Ernesto Nathan, poi sindaco di
Roma, attestare tutta la sua ammirazione e la
stima leale per il Re, che suo tramite e di tasca
propria finanziava gli irredentisti.
«Non era una fiaba. Era la premessa
per l'Italia civile auspicata dalle colleghe
d'insegnamento di Adelina Pasquet, come Ada Cocci
poi sposata con Piero Calamandrei, giurista
insigne e deputato alla Costituente per il Partito
d'Azione, tra i pochi a ritenere che la Repubblica
doveva essere “presidenziale”, fondatore e
direttore della rivista “Il Ponte”: un nome
programmatico e di sempre pregnante attualità.
«Il volume è una miniera di
informazioni e, ciò che più conta, evoca a tutto
tondo il primo Novecento, troppo a lungo irriso
come età dei “buoni sentimenti”. Oggi ve n'è
bisogno.»
Il mondo che fu. Quel che era torna e tornerà
per sempre (Corda Fratres).
A quelle della Principessa «parola non ci
appulcro…», come scrisse il Divino poeta. Posso
aggiungere che la fondazione della loggia
“Excelsior” di Torre Pellice, nella quale Federico
Pasquet venne iniziato con il numero di matricola
13.154, fece parte dell'impetuosa promozione di
officine massoniche impressa dal gran maestro
Ernesto Nathan all'inizio del Novecento con tre
obiettivi. Doveva fronteggiare la scissione della
“Famiglia” italiana sorta con la costituzione del
Grande Oriente Italiano (1898) capitanato da
Malachia De Cristoforis, di orientamento
repubblicano e federalista, proprio quando il
Paese aveva urgenza di unitarietà. Bisognava
schierare il Grande Oriente d'Italia a fianco
dello Stato e, quindi, della monarchia, che ne
costituiva il nerbo, nella Comunità
internazionale, e ribadire che la Massoneria era
al “di sopra dei partiti”. Il suo colore, disse e
scrisse il mazziniano Nathan, confidente del Re e
di Giolitti e poi sindaco di Roma, non è né il
rosso (dei rivoluzionari) né il nero (degli
anarchici, oltre che dei “clericali”), ma il
“bianco”: è, cioè, “universale”. Agli iniziandi si
domandava che cosa si proponessero per sé stessi e
per la Patria. E ai Venerabili si raccomandò di
essere indulgenti con i “bussanti”. Sarebbero poi
stati formati all'interno delle Officine, come
avvenne tra Piemonte e Liguria quando vi sorsero
la “Giuseppe Mazzini” di San Remo, la “Giuseppe
Garibaldi” di Porto Maurizio, che contarono tra i
propri “operai” Mario Calvino, padre dello
scrittore Italo, e Pietro Scalfari, padre di
Eugenio, e, appunto, la “Excelsior” di Torre
Pellice.
Il Diario e i Ricordi di Adelina
Pasquet invitano ad andare oltre la narrazione
dell'Italia tra Otto e Novecento invalsa molti
decenni addietro: vetero-nostalgica da un canto e
paleogramsciana dall’altro, una visione per
decenni rimasta pressoché identica nella
manualistica e nella vulgata. Occorre passare
dalle litanie alla storia. Esplorare faldoni di
documenti inediti e porsi domande costa fatica e
non remunera. Tuttavia, solo la ricerca
archivistica libera la storiografia dagli steccati
delle ideologie e dei “partiti” e la avvia a
divenire scienza. È l'ora. Così si scoprirà che
l'Italia di Vittorio Emanuele III, europea dalla
nascita, aveva una visione planetaria della sua
missione, come spiegò Giacomo Nowicov. Proprio
perché non era nazionalista.
Aldo A. Mola
Didascalia: La copertina del volume di Adelina
Pasquet, curato da Stella Peyronel, Alessandro e
Simone Milan. Mercoledì 7 maggio il libro è
stato presentato al Circolo Ufficiali di Torino
per iniziativa del Gruppo Croce Bianca di
Torino, fondato da Alessandro Cremonte
Pastorello, ora presieduto dal generale Giorgio
Blais, vicepresidente della Consulta dei
senatori del regno, con segretario Carlo Maria
Braghero. La fioritura di logge nell'Italia
nord-occidentale a inizio Novecento è
documentata dai volumi di Luca Fucini (I
guardiani della Nuova Italia e la Loggia Mazzini
di Sanremo, ed. BdS, 2025) e di Filippo Bruno
(La Riviera dei Framassoni, ed. Il filo di
Arianna, 2025).