1925: QUEL
REGIME CHE NON SI VIDE ARRIVARE
Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su "Il
Giornale del Piemonte e della Liguria" di domenica
18 maggio 2025
L'attendismo degli aventiniani e “ludi
cartacei”
Da quando data il “regime fascista”?
All’inizio di quest'anno alcuni articoli hanno
rievocato il discorso del 3 gennaio 1925, con il
quale Benito Mussolini respinse ogni addebito per
la morte di Giacomo Matteotti e rivendicò la
“rivoluzione” fascista. Per le molte violenze
(anche “irreversibili”) perpetrate dagli
squadristi nel cammino da “movimento” a
partito (marzo 1919-novembre 1921), nell'assalto
al governo e sino all'estate del 1924, il “duce”
sfidò chiunque, dentro e fuori l'Aula, a
incriminarlo e a farlo tradurre dinnanzi al Senato
costituito in Alta Corte, come previsto dallo
Statuto. Nessuno raccolse la sfida.
A parte il drappello dei giolittiani,
quel giorno assenti, i 19 deputati del partito
comunista d'Italia e gli otto germanofoni e
slavofoni, da sei mesi le “opposizioni” (i
repubblicani, i rappresentanti dei due partiti
socialisti e i popolari) si erano chiamati fuori
dal confronto in Aula, arroccandosi in una sorta
di “Aventino”, in attesa degli eventi. Il loro
portavoce più autorevole era Giovanni Amendola.
Capofila dei democratici, massone, teosofo, già
ministro, noto anche all'estero e apprezzato dal
Re, questi compì un errore strategico. Mentre
tanti fascisti della prima ora, su ordine dello
scaltro Mussolini, avevano deposto ogni velleità
di cambio istituzionale, quindi avevano nella
monarchia e negli alti gradi militari
l'interlocutore naturale, Amendola si trovò
circondato da partiti accomunati nella lotta
frontale contro i fascisti e la Corona, tacciata
di connivenza col regime nascente.
In pochi mesi divisioni e
contrapposizioni si acuirono. In marzo Franco
Ciarlantini dette impulso alla redazione di un
“manifesto” dell'ideologia fascista
internazionale. Lo scrisse il filosofo Giovanni
Gentile, già ministro della Pubblica istruzione
nel governo Mussolini. Presentato come espressione
degli “intellettuali fascisti”, esso venne
pubblicato nel Natale di Roma (21 aprile),
ricorrenza già celebrata da anticlericali e
massoni quale fondativa dell'idea d'Italia. Tra i
suoi 250 firmatari ricorrono futuri antifascisti,
dissidenti e massoni autorevoli come Ferdinando
Martini (Grande Oriente d'Italia) e Curzio
Malaparte (regolarizzato da Raoul Palermi nella
Gran Loggia d'Italia), letterati, critici e
storici famosi, come Luigi Pirandello, Corrado
Ricci, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Ugo
Spirito, Gioacchino Volpe e Guido da Verona, il
bello spirito che stava per rovinarsi la carriera
con la parodia dei “Promessi sposi” di Alessandro
Manzoni proprio mentre Mussolini, fiutati gli
incensi dell'Anno Santo, era già in marcia verso
la Conciliazione. Non mancò una firma femminile di
prestigio: Margherita Sarfatti, una dei 33 ebrei
firmatari del Manifesto di Gentile.
Su proposta di Amendola, Benedetto
Croce, a sua volta già ministro della Pubblica
istruzione, filosofo, critico, spirito libero che
aveva votato a favore del governo Mussolini anche
dopo l'“affare Matteotti”, scrisse la replica a
Gentile, pubblicata il 1° maggio su alcuni
quotidiani. Essa venne classificata “manifesto
degli intellettuali antifascisti” da che scordava
che “intellettuale” è termine spregiativo agli
occhi di Giosuè Carducci. Tra i suoi primi
quaranta firmatari alcuni tennero il punto. Fu il
caso di Guido De Ruggiero, Luigi Einaudi, Ettore
Janni, valdese, Arturo Carlo Jemolo, Francesco
Ruffini, giurista liberale. Altri, come Giovanni
Ansaldo, Arturo Labriola, Giovanni Miranda,
massone autorevole, dopo qualche anno scesero a
patti col regime, ritenuto definitivamente
vittorioso. Lo firmò anche Matilde Serao.
I due “manifesti” non significarono
contrasti inconciliabili. Alcuni transitarono
all'una all'altra sponda. Tra quanti
sottoscrissero quello di Croce, parecchi
collaborarono all'“Enciclopedia Italiana” diretta
da Gentile, che per la voce “Ebrei” si valse di
Giorgio Levi della Vida, firmatario del “manifesto
Croce”, e affidò la sezione “storia delle
religioni” a Raffaele Pettazzoni, massone della
prestigiosa “VIII Agosto” di Bologna. La partita
vera, comunque, non si giocò sui giornali, teatro
di “ludi cartacei”, ma nell'assetto del potere,
della produzione, delle relazioni internazionali
(vi provvide un corpo diplomatico di prim'ordine,
orchestrato da Salvatore Contarini, segretario
generale del ministero degli Esteri) e in
Parlamento. Fu nei suoi due rami che Mussolini si
impegnò direttamente, e a fondo, sapendosi
sorvegliato dal Re. Doveva dimostrare al sovrano
che la “rappresentanza” della “nazione” (i
senatori, nominati dal re; e i deputati, eletti
dai cittadini) erano favorevoli al governo.
Tante finte riforme...
Tramite lo squadrismo intruppato
nella Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale il duce controllava la “piazza”. Di
persona teneva in pugno il parlamento, in stretta
convergenza con il presidente del Senato, Tommaso
Tittoni, antico ambasciatore e ministro degli
Esteri in alcuni governi Giolitti, e molto
ascoltato dal Re; e con Antonio Casertano,
presidente della Camera, ex radicaleggiante,
massone incognito, il 6 aprile 1924 eletto nella
Lista nazionale, come altri notabili liberali,
incluso Enrico De Nicola.
Quale presidente del Consiglio e
ministro degli Esteri, fiancheggiato dal
protonazionalista e massonofobo Luigi Federzoni
all'Interno, Mussolini ebbe pieno controllo di
Montecitorio e ridusse all'osso l'opposizione in
Senato. Giocò abilmente con le Camere presentando
disegni di legge graditi a parte delle
opposizioni, a quel modo lusingate e private di
argomenti. Fu il caso della legge 15 febbraio
1925, n. 122 (mai attuata) che ripristinò i
collegi uninominali. Al democristiano Acide De
Gasperi il duce aveva promesso il ritorno al
proporzionale. Giocava a rimpiattino. In politica,
arte della menzogna qual egli la concepiva,
l'ingannato non è meno colpevole di chi inganna.
Conta il risultato finale.
Tra i capolavori mussoliniani vi fu
il conferimento del diritto di voto alle donne
nelle elezioni amministrative, approvato alla
Camera il 15 maggio 1925, dopo decenni di proposte
mai giunte in porto. A suo sostegno il duce
intervenne di persona, affermando che poteva
essere di qualche utilità benché la donna non
abbia «grande potere di sintesi e quindi sia
negata alle grandi creazioni spirituali». Anche
quella riforma finì nel nulla, perché Mussolini
abolì l'elettività dei consigli provinciali e
comunali.
Nei primi mesi dell'Anno Santo il
governo varò una folla di leggi e leggine per
rinsaldare il suo controllo sul Paese e il suo
prestigio agli occhi degli osservatori stranieri.
Occorrevano ordine e disciplina: promesse e
invocazioni di tutti i governi del dopoguerra,
spesso inconcludenti (Nitti, Giolitti, Bonomi,
Facta). Per prevalere definitivamente Mussolini si
valse della macchina dello Stato, mobilitata
tramite i prefetti. Contrariante a quanto
solitamente si dice e si crede il passaggio dal
regime parlamentare, in vigore dai tempi di
Camillo Cavour, a quello di partito unico non fu
affatto repentino. Non si risolse in pochi giorni,
settimane o mesi. Richiese tempi lunghi e non
modificò l'assetto dei poteri apicali. L'Italia
rimase una monarchia rappresentativa, come
enunciato dallo Statuto. Toccava al parlamento
approvare le leggi elettorali. L'aveva fatto tante
volte dal 1848 al 1919. Lo fece nel 1923 e tornò a
farlo nel 1928. Nel 1939 l'insediamento della
Camera dei fasci e delle corporazioni non richiese
neppure un voto di conferma da parte degli
elettori. Fu composta di membri di diritto in
virtù delle cariche di partito e di “nominati”, in
numero indefinito. I suoi componenti non furono
più “deputati”, cioè persone scelte e “mandate”
dagli elettori, ma semplicemente “consiglieri”. Se
così piaceva ai legislatori e alle piazze,
affollate di cittadini entusiasti, che cosa
avrebbe potuto o dovuto fare il Re?
...e consenso internazionale
Quel regime ebbe il plauso dei più
influenti Stati esteri, in specie della Gran
Bretagna e degli Stati Uniti d'America. Lo
ripetono i saggi di GianPaolo Ferraioli e di
Massimo Nardini pubblicati in “1925. L'Italia
verso il regime”. Nel suo insieme il volume
descrive l'abile uso dei poteri istituzionali da
parte di Mussolini, presidente del Consiglio dei
ministri e “Capo del governo”, carica istituita
con la legge 24 dicembre 1925, n. 2263. Al termine
di quell’anno egli poté contare su un regime
autoritario, incardinato su Partito nazionale
fascista, Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale, Tribunale speciale per la difesa dello
Stato (annunciato e di lì a poco insediato) e su
una macchina oppressiva e spionistica tra i cui
strumenti fu precipua l'Opera volontaria di
repressione dell'antifascismo (una delle tante
decrittazioni dell'acronimo OVRA).
Cavaliere della SS. Annunziata, e
quindi “cugino del Re”, dal 16 marzo 1924, tra la
metà del 1925 e l'inizio del 1926 il “duce del
fascismo” concentrò nelle sue mani una somma di
poteri senza precedenti nella storia d'Italia:
oltre che presidente del Consiglio e ministro
degli Esteri fu titolare dei ministeri militari
(Guerra, Marina e Aeronautica) nonché delle
Colonie. Direttamente o indirettamente influì su
produzione agricola, industriale, commerciale e
sul sistema bancario, con nuove norme su credito
cooperativo, casse di risparmio (accorpate),
credito mobiliare e Banca d'Italia. Fondato cinque
anni dopo, l'Istituto per la Ricostruzione
Industriale (IRI) venne considerato anche
all'estero un modello di modernizzazione. Alla sua
guida Mussolini pose Alberto Beneduce, già grande
oratore del Grande Oriente d'Italia, socialista,
libero pensatore, notoriamente antifascista ma
disponibile a collaborare con il governo per
attuare riforme che almeno in parte rispondevano
ai propositi di miglioramento delle condizioni
generali degli italiani. In quella direzione si
prodigarono economisti, sociologi, scienziati,
igienisti, scrittori, poeti e artisti come Duilio
Cambellotti, il “cantore” del regime che nel
dopoguerra ebbe parte eminente nella commissione
che scelse l'emblema della Repubblica italiana,
disegnato dal valdese e massone Paolo Antonio
Paschetto.
Tutte le leggi via via limitative
delle libertà introdotte in Italia da metà
Ottocento all'avvento del regime di partito unico
ebbero l'approvazione dei due rami del parlamento.
Nel novembre 1922 questi conferirono a Mussolini i
pieni poteri per la riforma della pubblica
amministrazione precedentemente negati al
liberal-democratico Giovanni Giolitti. Nel 1923 la
Camera eletta il 15 maggio 1921 col riparto dei
seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti
in lizza, come già osservò il rimpianto Giovanni
Sabatucci consumò il proprio suicidio con
l'approvazione della legge elettorale smodatamente
maggioritaria che assegnò due terzi dei seggi alla
lista che superasse il 25% dei consensi: uno
sproposito approvato dalla Camera eletta a
suffragio universale maschile durante il V e
ultimo governo Giolitti. Nel loro insieme, dunque,
i “cittadini” non furono affatto “innocenti”
nell'avvento del regime, che non videro arrivare o
preferirono non vedere. Esso si affermò “lento
pede” conquistando via via aree sempre più ampie
di consenso. In massima parte non colsero di
esserne vittime designate. Rimasero plaudenti sino
alla catastrofe.
Su quella premessa Mussolini cancellò
la “maledetta proporzionale” (formula cara a
Giolitti, che nutrì profondo disprezzo nei
confronti di Luigi Sturzo, fondatore del partito
popolare italiano, liquidato come “prete
intrigante”) e ottenne la straripante vittoria
della Lista nazionale il 6 aprile 1924. Pur
contando appena 227 deputati iscritti al partito
(e molti solo da pochi mesi) il “duce” resse alla
campagna d'opinione connessa al rapimento e alla
morte di Giacomo Matteotti. Dal gennaio 1925
riprese alacremente la marcia verso il regime,
condotta passo passo in Parlamento, ove egli
sedette in permanenza mentre, come detto, di
propria scelta cinque partiti di opposizione ne
rimasero fuori.Le molte rievocazioni di Matteotti
fiorite nel centenario del delitto non hanno
risposto a due domande fondamentali: che cosa
abbiano fatto i partiti non fascisti per non
finire travolti dalla legge elettorale, approvata
anche da liberali e popolari, e in quali modi
efficaci essi abbiano esercitato il loro mandato
nel corso del 1925.
Al bando i satanisti nel Giubileo 1925
Il 12 gennaio Mussolini aprì l'Anno
Santo presentando alla Camera il disegno di legge
sulla regolamentazione delle associazioni e
sull'appartenenza dei pubblici impiegati statali e
degli enti locali ad associazioni, subito nota
come legge contro la Massoneria. Fu la prima legge
dichiaratamente “fascistissima”, deplorata da
esponenti dell'opinione liberale quali Francesco
Ruffini e Benedetto Croce ma approvata quasi
all'unanimità alla Camera dei deputati e con soli
dieci voti contrari al Senato, senza che i votanti
fossero minacciati o coartati. Fu approvata dai
“rappresentanti” degli italiani in Parlamento.
Essi condannarono la massoneria italiana come
congrega di satanisti, vincolati da tenebroso
giuramento. Molti identificarono le logge con
nuove forme associative, quali i Rotary Club,
sospettati di esserne una reincarnazione, messa
però al sicuro con l’assunzione della loro
presidenza onoraria da parte di Vittorio Emanuele
III, di suo figlio, Umberto di Piemonte, e dei
prìncipi della Casa.
La drastica limitazione della libertà
di stampa, lo scioglimento delle associazioni e
dei partiti di opposizione, l'abolizione
dell'elettività dei consigli comunali e
provinciali, l'avvento del regime di partito
unico, il ripristino della pena di morte (la cui
abolizione, con il codice penale del 1889, aveva
costituito un primato mondiale dell'Italia
liberale), la dichiarata decadenza dei deputati
“assenteisti” (1926), la costituzionalizzazione
del Gran consiglio del fascismo (che, va
ricordato, non ebbe alcun potere sulla successione
alla Corona ma solo la facoltà di esprimere pareri
su leggi che la riguardassero) e la riforma
elettorale Rocco del 1928 vennero dopo.
Il 24 marzo 1929 il regime
mussoliniano ebbe trionfale conferma alle urne nel
clima propiziato dai Patti Lateranensi, celebrati
come Conciliazione e considerati così vincolanti
per la storia da essere inseriti nella
Costituzione della Repubblica in vigore dal 1°
gennaio 1948.
Il regime di partito unico, dunque,
non fu una Rivoluzione. Vittorio Emanuele III
conservò i poteri statutari e, quando venne l'ora,
revocò Mussolini da capo dal governo e lo sostituì
con l'Esecutivo presieduto dal maresciallo
d'Italia Pietro Badoglio che in pochi giorni
smantellò il Pnf e tutti i suoi organi e istituti.
Quel regime, però, non fu affatto indolore e, di
errore in errore e dopo l'orrore delle leggi
antiebraiche, il 10 giugno 1940 precipitò l'Italia
nella catastrofe della nuova guerra europea dal
1941 divenuta mondiale.
La lezione del 1925 giova a far
comprendere che il parlamento è il presidio delle
libertà. Molto oggi si dice della sua
inadeguatezza rispetto alla “democrazia
decidente”: formula opaca, quest'ultima, che
prospetta e alimenta, a ben vedere, sfiducia nelle
elezioni quale libero esercizio della sovranità
dei cittadini. La pulsione verso l'astensionismo
dalle urne è una nuova forma di “aventinismo”,
dannoso non meno di quello di un secolo addietro.
Perciò la riflessione sulla “marcia del
Parlamento” nel corso del fatidico 1925 non è mera
rievocazione del passato remoto ma invito a vedere
i germi di nuovi regimi personalistici,
sostitutivi degli equilibri dei poteri garantiti
dalla Costituzione vigente.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Il libro “1925. L'Italia verso il
regime”, con premessa della Principessa Maria
Gabriella di Savoia (BastogiLibri, maggio 2025),
comprende saggi di Carlo Cadorna, Raffaella
Canovi, Antonio Cecere, Daniele Comero con
Rossana Mondoni, GianPaolo Ferraioli, Luca
Giuseppe Manenti, Alessandro Mella, Massimo
Nardini, Luigi Pruneti, Aldo Giovanni Ricci,
Tito Lucrezio Rizzo, Giorgio Sangiorgi e Antonio
Zerrillo: panorami su politica estera e interna,
forze armate, vita economica, culturale e
sociale, tramonto delle libertà politiche e
associative e figure rappresentative di
un'epoca, come Gabriele d'Annunzio e il generale
Pietro Gazzera. Il volume, pubblicato
dall’Associazione di studi storici Giovanni
Giolitti e dall'Associazione di studi sul
Saluzzese, con adesione di enti, istituti di
studi e associazioni, è in libreria e può essere
ordinato a bastogilibri@gmail.com.